La carità romana, olio su tela, Pellegrini
Balestra Venere e Ippomene
Balestra Venere e Ippomene

Antonio Balestra

(Verona, 1666 – 1740)

Venere e Ippomene
“Per caso io me ne stavo tornando di lì e portavo in mano tre mele d’oro che avevo colto. Invisibile a tutti tranne che a lui, mi avvicinai a Ippòmene e gli spiegai che uso doveva fare di quei pomi. Ecco che squilli di tromba dànno il via: dalla linea di partenza l’uno e l’altra scattano tutti curvi in avanti, e i loro piedi veloci sfiorano appena la sabbia”. […]
Allora il discendente di Nettuno si decise a lasciar cadere uno dei tre frutti. Si stupì, la vergine, e incantata dal pomo luccicante deviò e raccolse la sfera d’oro che rotolava. Ippòmene la sorpassa; dalle tribune uno scroscio di applausi. Lei recupera con corsa veloce il tempo perduto, e di nuovo si lascia il giovane alle spalle. Rimasta indietro un’altra volta al lancio del secondo pomo, un’altra volta lo insegue e lo supera. Ormai c’era da correre solo l’ultimo tratto. “Ora assistimi, - disse lui, - o dea che mi hai fatto il dono!” e con vigore lanciò l’oro splendente in linea obliqua verso il bordo della pista, perché essa ci mettesse più tempo a tornare. La vergine parve incerta se andarlo a prendere o no. Io la costrinsi a raccoglierlo, e quando lo ebbe preso ne accrebbi il peso e così la ostacolai anche col carico, oltre che con la sosta. Perché il mio racconto non sia più lungo della corsa stessa: la vergine fu sorpassata: il vincitore se la prese, in premio, in moglie”1.
É il racconto del poeta latino Ovidio, nel Decimo libro delle Metamorfosi, ad ispirare il pennello di Antonio Balestra. Nivea e di immacolata bellezza, la dea Venere regna sulla composizione e, nell’accogliere la preghiera di Ippòmene, porge benevolmente tre splendenti pomi d’oro al fanciullo, deciso ad usarli come stratagemma nella gara con Atalanta.
Figlia del re dell’Arcadia Iasio e di Climene, abbandonata dal padre sul monte Pelio, Atalanta è una giovane donna bellissima, abile cacciatrice, talentuosa, eccelsa nell’arte della corsa, determinata a concedersi in sposa solamente all’uomo che l’avrebbe superata in una gara di velocità, con la cruda condizione di condannare a morte i pretendenti da lei sconfitti. Ippòmene ne è innamorato così follemente da accettare la sfida anche a costo di morire. Venere corre in suo aiuto: per distrarre e rallentare l’amata lo esorta a sparpagliare le mele d’oro durante la competizione.
La scena si compone di un melodioso e serrato dialogo tra i personaggi, in un andamento poetico e circolare delle pose, e in un ritmo cadenzato eppure fluidissimo.
Con i celestiali riccioli d’oro trattenuti da una fascetta di perle, la dea è spalleggiata da una coppia di colombe ad ali tese; un drappo blu le piroetta attorno, lasciando indovinare l’ombelico e il capezzolo. Sono gli stessi tratti soavi e graziosi che il pittore veronese riserva alla protagonista de La ricchezza della Terra2, notevole dipinto dal colore festoso e un po’ languido.
Il piccolo Cupido le si accoccola sul fianco, si rannicchia in un drappo rosso, stringe la faretra in una mano e con l’altra indica Venere, che dolcemente gli accarezza le ali, facendo trapelare una delicata dolcezza materna.
La carnagione brunita di Ippòmene stacca per contrasto dal nudo pallido ed angelico di Venere, traendone il massimo rilievo visivo anche per la ripresa ravvicinata. Un nastro rosso volteggia tra i boccoli del fanciullo imberbe, mentre schiude la mano verso la dea, in un gesto che infonde efficacemente vita alla figura. La posa è pervasa di grazia e avvenenza; i lineamenti sono accompagnati da disinvoltura e spontaneità; il profilo e la figura sono costruiti con un preciso gioco di chiaroscuri. I volti si liberano in dolci sorrisi e gli incarnati acquisiscono un tono madreperlaceo: la grazia è il tratto qualificante della poetica di Antonio Balestra ed è il suo personale contributo alla civiltà raffigurativa del Rococò. A commento di questa sua peculiarità, Giambettino Cignaroli scrisse: «In lui si può certamente ritrovare la più ghiotta maniera, tutta grazia, essendo tanto il modo suo di disegnare, che il colorito ancora. Inventò con sommo giudizio e proprietà, e fece teste di Madonne mirabilissime, giovinetti in un contorno sì lindo e nobile che innamora. Nelli fanciulletti poi operò meraviglie, dei quali le teste guardanti in su dipinse con certa graziosa forma e soavità inarrivabile. Panneggiò grandioso con alcune particolari ammaccature, che fanno un vago misto di barocchesca e marattesca maniera»3.
La materia pittorica stessa è sensuosa, stesa a tocchi grassi di pennellata, e la leggera gamma cromatica è una tastiera di delicati color pastello schiariti da una luce diffusa.
In Balestra emerge un forte senso della forma, l’uso di una modellazione ben definita e una particolare attenzione all’assetto compositivo sempre calibrato, raggiunto attraverso simmetrie misurate, corrispondenze, parti che si richiamano e si ricompongono in un tutto armonico e razionale. L’artista segue un iter progettuale strutturato e propedeutico alla realizzazione delle opere: si individua un primo livello progettuale negli studi di elementi singoli o parziali e diversi livelli di progressivo avvicinamento all’opera definitiva, insieme ad un ricorso alla quadrettatura per la trasposizione del disegno sul foglio.
Il dipinto Venere e Ippòmene, strutturalmente molto simile a La Giustizia e la Pace4, era stato reso noto per la prima volta da Egidio Martini nel 1982, quando si trovava in una collezione privata a Sesto San Giovanni. L’opera mostra pienamente la maturità raggiunta dall’artista, in una sorta di sintesi che fonde le esperienze lagunari di Jacopo Amigoni e di Giovanni Antonio Pellegrini con una profonda rimeditazione sulla lezione di Correggio, appresa durante il viaggio in Emilia a inizio secolo. Nonostante la tela sia stata per anni datata entro gli anni Venti del secolo, si potrebbe più opportunamente riportare intorno alla metà del primo decennio del Settecento, vicino alle tele per il collezionista Stefano Conti di Lucca5.
In occasione del trecentocinquantesimo anniversario della nascita dell’artista, il dipinto è stato esposto dal 19 novembre 2016 al 19 febbraio 2017, alla mostra Antonio Balestra – Nel segno della grazia, allestita al Museo di Castelvecchio per restituire al pittore il suo ruolo di profondo rinnovatore della pittura veneta. L’esposizione offriva al pubblico oltre sessanta opere tra dipinti, disegni, incisioni e volumi a stampa, provenienti da musei pubblici e da prestatori privati italiani ed europei.
Antonio Balestra, a cui riconosciamo anche una produttiva attività di incisore, nasce e vive gran parte della sua vita a Verona, ma la sua attività sconfina ben presto le mura della città. La sua formazione artistica privilegiata lo porta dapprima a Venezia sotto la guida prestigiosa di Antonio Bellucci; dalla metà degli anni Ottanta del Seicento ai primissimi anni del nuovo secolo compie studi ed esperienze nelle grandi città italiane, tra cui Roma, come allievo di Carlo Maratta dal 1691 al 1694. Quando Antonio rientra definitivamente a Verona nel 1718, è un artista al colmo della fama, tanto da fondare un’avviatissima scuola di pittura, dalla quale usciranno Giambettino Cignaroli, Giuseppe Nogari, Pietro Rotari e molti altri. Il maestro spicca ora per le sue grandi doti formali che sono presto un utile e stimolante esempio per la cultura figurativa di alcuni artisti veneziani contemporanei, tra i quali è da annoverare l’estroso pittore Mattia Bortoloni6. In questi anni si lega ai più zelanti collezionisti contemporanei italiani ed europei e accoglie commissioni eccellenti, lavorando su dipinti a tema religioso, a cui è profondamente legato, e a rappresentazioni profane e mitologiche7. È richiesto da rinomate famiglie nobili veneziane come i Barbarigo e i Barbaro; e si guadagna la fiducia di importanti personalità internazionali come il geografo ed enciclopedista Vincenzo Maria Coronelli; Nicolaas Hartsoeker, celebre matematico e fisico olandese al servizio dell’Elettore Palatino; il vescovo e arcivescovo tedesco Lothar Franz von Schönborn; l’impresario teatrale Owen McSwiny; il mecenate e scrupoloso collezionista d’arte tedesco Matthias von der Schulenburg.

Antonio Balestra
(Verona, 1666 - 1740)
Venere e Ippomene,
1705 circa,
olio su tela, cm 117 x 110

Esposizione:
Antonio Balestra. Nel segno della grazia, Verona, 2016-2017.

Mostra A.Balestra 2016 1



Pubblicazione:
Antonio Balestra. Nel segno della grazia [Museo di Castelvecchio, Sala Boggian, 16 novembre 2016 – 19 febbraio 2017], catalogo della mostra a cura di Andrea Tomezzoli, Scripta Edizioni, Verona, 2016, p. 68, cat. 19.

Bibliografia:
1. Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi X, a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, Torino, 1994;
2. Olio su tela, 1703, Bolzano, Palazzo Mercantile, in C. Donzelli, G.M. Pilo, I pittori del Seicento veneto, Remo Sandron Edizioni, Firenze, 1967, tav. 57;
3. G. Cignaroli, Vita di Antonio Balestra, Verona, 1762;
4. olio su tela, cm 107 x 114, 1714, Pommersfelden (Baviera), Castello di Schönborn, Die Grosse Gallerie, in M. Polazzo, Antonio Balestra, Pittore veronese del Settecento, Verona, 1990, p. 85, tav. 20;
5. Antonio Balestra. Nel segno della grazia [Castelvecchio, 16 novembre 2016 – 19 febbraio 2017], catalogo della mostra a cura di Andrea Tomezzoli, Scripta Edizioni, Verona, 2016, p. 69;
6. E. Martini, Studi sulla pittura veneta dal XV al XVIII secolo, Scripta Edizioni, Verona, 2010, pp. 149 – 53;
7. M. Polazzo, Antonio Balestra, Pittore veronese del Settecento, Verona, 1990, pp. 15 – 21.

  • Lun - Ven: 9:00 - 13:00 | 15:00 - 19:00
  • Sab e Dom: escusivamente previo appuntamento

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